Perché si sta parlando di Jenin?

Tensioni in Cisgiordania

Annalisa Vibio
6 min readJul 5, 2023
Foto di Amit Lahav su Unsplash

Nella notte tra martedì e mercoledì, l’esercito israeliano ha iniziato il ritiro delle sue truppe dalla occupata Jenin, città in Cisgiordania. In questo modo, Israele ha posto fine alla più significativa operazione militare degli ultimi vent’anni, a cui hanno partecipato circa duemila soldati. Ciononostante, alla luce di questi avvenimenti, ieri il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che “al momento la missione è in fase di completamento, ma l’attività a Jenin non è un’operazione che termina con queste azioni”.

Nel frattempo, come riferito dal quotidiano The Times of Israel, un soldato israeliano è stato, infatti, colpito e ucciso durante la fase di ritiro. Egli, sottoufficiale dell’unità di commando d’élite Egoz, è stato gravemente ferito mentre assicurava l’inizio della ritirata militare ed è morto poco dopo in un ospedale della sua nazione. Tuttavia, c’è ancora confusione sull’accaduto: si cerca ancora di capire se l’uomo sia stato colpito da armi da fuoco palestinesi o se ci sono altre soluzioni in campo.

Comunque, ad aggiungere pressione sugli eventi, si è contemporaneamente aperto a sud un nuovo fronte caldo. Mercoledì mattina, dalla Striscia di Gaza, sono stati lanciati cinque razzi verso Israele, anche se non hanno causato alcun danno. Questi, sono stati in breve intercettati dai sistemi di difesa aerea dell’Idf (Israel Defense Force) e neutralizzati. Ovviamente, però, un contrattacco israeliano non ha tardato ad arrivare: questa notte l’esercito di Gerusalemme ha dichiarato di aver perpetrato attacchi aerei sulla zona e bombardato Gaza, colpendo, secondo fonti della sicurezza, un sito militare di Hamas.

Il campo profughi di Jenin è ora in condizioni piuttosto precarie, senza acqua ed energia elettrica da giorni. Moltissimi edifici sono stati danneggiati e distrutti, i bulldozer israeliani, nel sgomberare le strade, hanno distrutto cavi della corrente e tubi e si stima che più di 3.000 persone siano state costrette a fuggire dal campo e dall’area urbana.

È lecito allora domandarsi il perché di queste violenze, così come il motivo per il quale Jenin è risultato un bersaglio così importante.

Ramallah Checkpoint. Foto di Cole Keister su Unsplash

Che cos’è successo nei giorni scorsi?

Nella notte di lunedì, l’esercito israeliano ha dato inizio ad una delle operazioni più estese degli ultimi vent’anni, considerando il territorio della Cisgiordania occupata.

Centinaia di soldati d’Israele hanno aperto il fuoco contro militanti palestinesi armati, principalmente all’interno del campo profughi della città di Jenin. Nelle prime ore, droni telecomandati a distanza hanno bombardato la presunta sede, secondo l’intelligence israeliana, di vari gruppi militanti della zona, i quali considererebbero il luogo come centro di coordinamento per possibili attacchi e manifestazioni violente. Allo stesso tempo, i blindati hanno preso il controllo delle strade, mentre sono state interrotte le comunicazioni telefoniche e la fornitura di energia elettrica all’interno del campo profughi, rendendo particolarmente difficile capire sul momento cosa stesse succedendo sul territorio.

L’esercito israeliano ha dichiarato di aver agito su informazioni precise e per giuste ragioni, cercando fortemente di non danneggiare i civili residenti nella città. Tuttavia, è chiaro che gli avvenimenti siano stati principalmente guidati da motivazioni politiche, alla ricerca di consensi. L’estrema destra israeliana chiedeva, infatti, da tempo al governo un intervento massiccio contro gli attentati più recenti, diventanti numerosi contro i coloni all’interno della Cisgiordania occupata o fuori dallo stesso territorio.

Comunque, secondo le dichiarazioni del ministro degli Esteri di Gerusalemme, il governo non avrebbe intenzione di replicare gli scontri del 2002. Il 30 marzo di quell’anno, infatti, l’esercito israeliano con guida Ariel Sharon lanciò l’operazione Scudo Difensivo, ovvero un’imponente operazione militare volta a colpire gruppi estremisti e laboratori di esplosivi. Essa coinvolgeva un massiccio invio di soldati in tutta la Cisgiordania, nel momento in cui, in Palestina, era in corso la seconda intifada (in breve, un’ondata di proteste diffusasi in tutto il territorio).

Eli Cohen, ministro degli Esteri israeliano, si è quindi affrettato a dichiarare che Israele “non ha intenzione di estendere l’attività, l’obiettivo è focalizzarsi su Jenin e sulle cellule terroristiche finanziate dall’Iran”.

Foto di Latrach Med Jamil su Unsplash

Perché proprio Jenin?

Durante l’operazione miliare, l’esercito israeliano ha dichiarato di aver trovato nel campo profughi di Jenin molteplici depositi di esplosivi, di aver confiscato circa un migliaio di armi da fuoco e di aver arrestato 30 persone, le quali apparivano coinvolte in azioni criminali.

La città di Jenin, in particolare in suo campo profughi, rappresenta, infatti, per Israele l’area della Cisgiordania dove sono maggiormente concentrati alcuni gruppi armati radicali palestinesi. Si parla del Jihad Islamico, di Hamas, ovvero del gruppo che controlla la Striscia di Gaza, o del braccio armato di Fatah. Questi, in aggiunta, opererebbero in collaborazione con un gruppo armato locale, chiamato Battaglione Jenin, nato non più di un paio di anni fa. Difatti, è oggi sempre più evidente la frammentazione interna che coinvolge i vari gruppi palestinesi, fenomeno che non fa che alimentare azioni irruente.

Da diversi mesi, dalla città di Jenin, sono quindi stati iniziati alcuni dei peggiori scontri contro gli israeliani, e coloni, degli ultimi tempi: il recente incremento delle violenze ha causato decine di morti da entrambe le parti.

Tuttavia, va specificato che le azioni di risposta israeliane non hanno fatto che alimentare questa precaria situazione, soprattutto dopo il marzo 2022. In quella occasione, con l’operazione Breakwater, l’esercito di Israele organizzò raid militari frequenti nel campo profughi di Jenin e nella vicina città di Nablus, con lo scopo ultimo di colpire quelli che l’intelligence considerava gruppi terroristici. I palestinesi, di conseguenza, non hanno auspicato che ad aumentare il livello di violenza.

Si ricorda che la Cisgiordania è un territorio che Israele occupa dal 1967, il quale viene da sempre rivendicato come proprio dai palestinesi. Dei 39 mila abitanti di Jenin, 14 mila occupano il campo profughi incluso nel perimetro cittadino. Questo esiste dal 1953 ed è oggi abitato dai discendenti dei palestinesi che per primi furono costretti ad abbandonare le proprie terre, dopo l’istituzione di Israele nel 1948.

Foto di Toa Heftiba su Unsplash

Dichiarazioni in merito agli eventi

Secondo le parole del vice governatore di Jenin, Kamal Abu al-Roub, più di 3.000 persone sono state costrette a lasciare il campo profughi della città della Cisgiordania, costringendo accordi per ospitare i rifugiati nelle scuole o in altri luoghi urbani. Il servizio di soccorso della Mezzaluna Rossa palestinese ha poi confermato le stesse stime.

In aggiunta, l’UNRWA, ovvero l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ha da subito dichiarato che le persone rimaste nel campo avrebbero urgente bisogno di cibo, acqua potabile, latte in polvere, o altri beni essenziali.

Il ministero della salute palestinese ha affermato che, dai primi attacchi, almeno 10 persone sono state uccise, mentre un centinaio ferite. Nelle stesse ore, però, la polizia israeliana ha dato comunicazione di un presunto attacco terroristico, rivendicato da Hamas, nella città di Tel Aviv: un cittadino palestinese ha travolto in auto un gruppo di pedoni.

Ovviamente, c’è da chiedersi quando finiranno queste inutili violenze, scontri e occupazioni. Si sa, però, che questa è una domanda che difficilmente trova una risposta, o forse la troverà mai.

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Annalisa Vibio

Hi 🙋‍♀️ I am an university student of Economics 📚 interest in geopolitics, journalism ✒ and creative writing, willing to share my everyday experiences 📖